Barbie, il cinema ancora da tradire e l'anticapitalismo da immaginare
Non ho difficoltà a sostenere logica ed emozioni allo stesso tempo,
non diminuisce i miei poteri. Anzi li espande.
Barbie Avvocata
Ho avuto una sola Barbie da piccola. Barbie principessa.
Il mio disinteresse verso di lei era talmente acuto che faccio fatica a ricordare le sue sembianze. Neanche le mie sorelle erano particolarmente attente alle loro Barbie, o meglio, alcune bambine ci facevano notare spesso che, per essere serie estimatrici della bambola, bisognava possederne molti esemplari e gestire maniacalmente vestitini, accessori e confezioni originali. Le nostre Barbie assegnate d’ufficio, una a testa, avevano subito il mangiucchiamento di mani e piedi, il taglio coatto dei capelli e venivano sempre dopo una lunga lista di altri giochi che consideravamo più coinvolgenti. Da sole, forse avremmo risentito di più di quei commenti, forse avremmo sentito più presto il peso di certe differenze, e invece, giocando insieme, abbiamo vissuto con serenità il nostro rapporto dissacrante e non fanatico con Barbie.
Nonostante tutto questo, anche io sono andata a vedere il film di Greta Gerwig, al Cineworld di Renfrew Street di Glasgow, nel bel mezzo della più grossa operazione di marketing cinematografica degli ultimi tempi, conosciuta come Barbienheimer.
Il cinema è tutto ciò che si può ancora tradire
Questo Cineworld è un monolite di 62 metri di altezza, il cinema più alto del mondo. Oggi, più del suo primato, questo edificio del 2001 è la rappresentazione di un’industria che non poteva nemmeno immaginare la catastrofe che l’aspettava. I 4.300 posti a sedere sono quasi l’archeologia di un rituale tramortito dalla pandemia e tradito dalle piattaforme, e forse tutti i multisala oggi sono capsule del tempo, dall’estetica vagamente anni 90 all’organizzazione degli spazi pre-Covid. Eppure, la magia di stasera offusca i venti di crisi che porteranno probabilmente questo Cineworld alla rovina.
Il cielo è di un grigio senza conseguenze. Da queste parti l’anticiclone africano è solo l’incubo di qualche turista evacuato dal sud Europa e da queste vetrate enormi, dalle scale mobili che servono a trasportarci in massa al sesto piano, la vista è spettacolare. Vorrei scattare una foto col telefono, ma me ne dimentico. Troppi stimoli. Ci avviciniamo al cospetto del quattordicesimo dei diciotto schermi installati nel multiplex.
Il personale delle sale, ai banconi degli snack e delle bibite, chiunque sia in turno, si agita, produce elettricità. A dire il vero, sembra che ci sia molto personale extra, chiamato apposta per l’occasione, ci dicono di andare di qua, di là, di aspettare, inspiegabilmente si fermano a condividere impressioni con chi glielo chiede. Nei corridoi asfittici l’aria è viziata e le file per comprare vassoietti di nachos al “formaggio”, sacchetti di popcorn e bicchieri di Pepsi di dimensioni statunitensi, si incrociano con quelle degli spettacoli, programmati a batteria continua. Una giornata così probabilmente non si vedeva da anni.
Ora, in questo delirio di quattro file incrociate - Barbie, Oppenheimer, snack, altri snack -, incrociamo spesso il pubblico di Oppenheimer che ci chiede per cosa siamo in fila. Un paio di loro reagisce con facce quasi disgustate alla risposta “Barbie”. Una signora di almeno 70 anni in sedia a rotelle è qui con figlie e nipoti, risponde: “La vita è breve! Andate a vedere Barbie!”. Il cinema che riesce a sfruttare una delle forze motrici più potenti dei nostri giorni: la polarizzazione.
Ci dividono in un’ulteriore fila, quella dei QR code e quella dei biglietti cartacei. Entro in sala e sono più curiosa del pubblico che del film. (Da quand’è che non entro in un multisala? Da quando non ci entrava la signora in sedia a rotelle insieme a figlie e nipoti?) Le due ragazze accanto a me hanno fatto il pieno di cibi ultraprocessati, siedono a gambe incrociate sui sedili e indossano una felpa oversize rosa coordinata. Il godimento è palpabile. La differenza col salotto di casa è solo la quantità di germi sui braccioli e di pop corn del turno precedente che scompariranno appena spente le luci. Dietro di noi una coppia molto giovane: lei molto silenziosa e sicura di sé, lui probabilmente un affezionato dei Marvel. Lui ride a ogni battuta e cerca l’attenzione e l’approvazione di lei, forse di tutta la sala. Sembra quasi che voglia guadagnarsi il diritto di essere lì. Partecipa agli applausi, agli “YESS!”, sottolinea con suoni aspirati ogni battuta iconica. A fine proiezione, si affretterà a comunicare alla sua vicina che è stato il più bel film che abbia mai visto. Silenzio. Tutta la nostra fila vorrebbe capire se e quanto lei si sia pentita della sua compagnia, invece si riaccendono le luci, e ci distraiamo. La composizione è ancora più variegata di quello che avevo notato all’entrata, persone di tutti i generi e una grande componente intergenerazionale femminile.
Ricoprire di soldi un regista per un Marvel è un’operazione che alimenta un filone riconosciuto, un pubblico stabile e un’idea di mascolinità solida. Se succede con Greta Gerwig, regista considerata indie, nessuno sa cosa aspettarsi, è tutto nuovo, tutto da inventare e, come molti cambiamenti, viene percepito come una minaccia. Figuriamoci poi se invece di scatenare guerre ed esplosioni, ben più rassicuranti, Gerwig si mette a dipingere di rosa il mondo.
La coscienza di questo trattamento differente non elimina di certo il fatto che la poetica Barbie poggiata sopra le istanze del femminismo liberale ottiene una coincidenza quasi perfetta: Barbie è pur sempre uno stereotipo oppressivo, il risveglio è individuale e non aspira a occuparsi di altre strutture di potere oltre il genere.
Ma quel “quasi” è il motivo per il quale Barbie, a volte, può diventare un piacevole svago anche un pubblico più radicale.
L’anticapitalismo da immaginare
Barbie è un film capitalista? Quale blockbuster non lo è? Se le disuguaglianze di genere lambiscono solo superficialmente il cinema a questi livelli, Gerwig osa utilizzare il femminismo come base per creare un mondo nuovo e rendere le donne protagoniste.
Non era stata un’operazione simile anche Black Panther? La prima produzione dell’universo Marvel in cui il supereroe è un uomo Nero, il cast è prevalentemente Nero e si seguono narrazioni Afroamericane. T’Challa, il compianto Chadwick Boseman, deve affrontare la minaccia della sua leadership nel regno di Wakanda. Senza le lotte dei movimenti Neri, questo film che prende addirittura il nome da una delle sue più importanti organizzazioni politiche rivoluzionarie, forse non avrebbe mai visto la luce.
Un altro esempio è la serie televisiva Bridgerton di Shonda Rhimes. Siamo in una età della Reggenza in cui i nobili sono anche Neri e questo cambiamento radicale dei corpi e dell’estetica monarchica inglese è dato per scontato. Il razzismo semplicemente non esiste e i problemi che agitano la quotidianità sono i drammi di una qualsiasi corte. Un grandissimo successo Netflix.
Sono casi in cui si gioca sullo straniamento (per qualcuno) e la soddisfazione (per altrx) provocati dallo scambio di ruoli e di leadership nelle società.
In nessuno di questi casi, Barbie compresa, si mette in discussione la leadership verticale: la figura di CEO, la monarchia, l’esistenza di regni e capi. Eppure, per qualcuno, vale ancora la pena pagare un biglietto per vedere rappresentata un’ora e mezza di quell’inversione di ruoli, il “come sarebbe il mondo se”, accettando il patto implicito che a schermi spenti, si tornerà alla stessa solfa.
Penso anche che la definizione di anticapitalismo, per come l’abbiamo ereditata, stia diventando vuota. Penso al telefono da cui scatto foto, agli snack ultraprocessati a cui cedo, alla cultura che fruisco e alle piattaforme che sto usando per divulgare queste parole. Che significato ha o dovrebbe avere dirmi anticapitalista oggi?
E ci sono altre cose che vorrei imparare a ridefinire. Cosa significa integrità e come si dispiega il rapporto con uno spazio di azione in qualche modo contaminato dal capitale? Zerocalcare nei cartoni in cui parla di antifascismo ironizza sul suo rapporto con Netflix, esattamente come Black Mirror utilizza la stessa piattaforma per denunciare gli effetti della pervasività degli schermi nelle nostre vite. Se penso alle nuove estetiche digitali, oggi come oggi, è chiaro che la manipolazione di elementi della cultura capitalista e pop è stata necessaria per non soccombere, per non sentirsi alienati, per non esaurirsi in un ideale irraggiungibile di purezza o per non scegliere l’autoisolamento. E anche Barbie è a disposizione di saccheggio, riappropriazione e risignificazione proprio in questo momento. Allora la domanda non è più: Barbie è un film rivoluzionario? Ma: come e cosa dovrebbe essere rivoluzione oggi?
Il mondo degli opposti perfetti è scomparso. E la lealtà alle nostre istanze forse ha bisogno di altri strumenti, e persino altre misure.