Dalla narrazione tossica del politicamente corretto e del "wokismo" agli strumenti della resistenza
Le possibilità del lavoro comunitario per contrastare la retorica dell'estrema destra
1.
Ci risiamo. Il pretesto è il lancio di un podcast che si proclama trasgressivo, intenzionato a smascherare la cultura woke e l’impero del politicamente corretto” che “impediscono di raccontare le cose del mondo per quelle che sono”. A ospitarlo una rivista online. A condurlo un filosofo condannato per lesioni e maltrattamenti ai danni della ex compagna, descritto dal direttore della rivista come intellettuale ghettizzato dall’opinione pubblica.
Il primo passo è dipingersi vittima, ma il tono di sfida tradisce una certa sicurezza sulle reazioni attese. Le variazioni sul tema sono infinite: le nazifemministe che odiano gli uomini, le donne che vogliono portare via figl* a ex mariti, le donne trans pericolo negli spogliatoi, la dittatura dell’ideologia gender, le persone razzializzate che minacciano i valori nazionali e la tradizione.
Le parole d’ordine sono sempre le stesse: pensiero unico, woke, politicamente corretto, censura. Una retorica ripetitiva e prevedibile che si attiva puntualmente quando le voci marginalizzate prendono spazio di parola. A questo punto ogni critica diventa l’espressione di una lobby, ogni richiesta di responsabilità si trasforma in un attacco alla libertà di espressione. E’ un linguaggio che seduce molti, nei media, nella cultura, cadono nella trappola, interpretando il ruolo di difensori del pluralismo.
Questa retorica non intercetta solo ambienti conservatori, ma tocca un universo di fastidi superficiali presenti anche in altri ambienti, politicizzati e non. Fastidi che se lasciati sedimentare, finiscono per diventare aperta ostilità. Il risultato è una narrazione tossica che alimenta il senso di accerchiamento e vittimismo, tanto da negare l’ascolto a chi conosce davvero le dinamiche della discriminazione. Si percepisce una minaccia, ma per decodificarla si ricorre a una matrice concettuale che non viene mai interrogata.
Quella del “non si può più dire niente” non è, infatti, una retorica innocua, ma punta a rafforzare le basi culturali dell’estrema destra. Per funzionare, bisogna ridurre donne, persone trans*, persone razzializzate a caricature che emettono solo un rumore di fondo. La violenza che subiscono o le loro condizioni materiali non esistono, devono apparire mostri, alieni ossessionati soltanto dalla loro identità. L’urgenza improrogabile con cui questo accade è radicata nella necessità di affermare se stessi, incuranti di tutto l’impatto e le conseguenze nella società, per scivolare poi con naturalezza nella cornice dell’estrema destra, percepita come rassicurante e solidale, scevra da critiche e richieste di responsabilizzazione.
Sono questioni esplorate fino allo sfinimento negli ultimi anni. Di sicuro molto meglio di quanto possa fare io in queste righe. Ma in qualche caso, questi discorsi sfiorano i temi cari alla giustizia trasformativa, in modo totalmente strumentale.
I paladini della libertà di espressione, infatti, per contrastare la fantomatica dittatura woke, la definiscono giustizialista e invocano la presunzione di innocenza, che sembra però solo un pretesto per esaltare il puro mantenimento del potere.
Molti uomini cis si raccontano vittime di un sistema punitivo, senza mai interrogarsi sulla propria responsabilità, sul ruolo attivo nelle scelte, anche in quelle di violenza. Questo perché vengono socializzati dalla società come gli unici soggetti che non devono mai rendere conto delle proprie azioni.
Un approccio realmente antipunitivo, trasformativo, invece, metterebbe al centro le persone impattate. Chiederebbe responsabilità, non spettacolarizzazione. Incoraggerebbe processi di riparazione. E proporrebbe una lettura della violenza di genere (e di quella ritrosia a prenderla in carico in modo autentico) come espressione di un sistema più ampio, quello patriarcale.
La difficoltà ad affrontare un percorso di responsabilizzazione è del tutto comprensibile (non giustificabile): decostruire richiede una cultura, in questo caso una cultura dei media, che faccia pressione in questo senso, e una vulnerabilità a cui, chi continua a pensare al potere, a preservare capitale culturale e simbolico, fa fatica ad accedere.
Un uomo con una storia di violenza, alle richieste di uno spazio online per raccontare i pericoli della cultura woke, dovrebbe ricevere più spesso risposte come: prima decostruisci, poi ripara, e magari ne riparliamo. E già che ci siamo, quasi quasi provo ad accompagnarti nel percorso.
Per non rischiare di esaurire le energie nel contrasto al caso singolo, possiamo fare un’analisi del terreno? Quale rimane il più ostico? Sicuramente quello online. Perché se andassimo a chiedere in giro quali sono i problemi reali della gente, avremmo risposte molto differenti dalla dittatura woke.
Un’altra parte di quella reazione alla richiesta di spazio potrebbe essere. Non è forse il caso di studiare da dove viene questa ossessione per il cosiddetto woke?
2.
L’ossessione per il woke in Italia non nasce nel vuoto. Se ci fosse ancora bisogno di prove, basta rivedere il discorso di Giorgia Meloni alla convention CPAC di quest’anno. Meloni parla di una destra che celebra la vita e la libertà e cita come minaccia più rilevante nell’Occidente la cancel culture e la cultura woke.
La dinamica segue traiettorie già sperimentate negli Stati Uniti dove il trimpusmo, nonostante la rozzezza dei suoi contenuti, ha affinato una strategia comunicativa basata su continue provocazioni e distrazioni mirate, mentre si attuano politiche devastanti, come evidente dopo poche settimane dall’insediamento di Trump e d’altronde anche del governo Meloni. Da queste azioni dipende letteralmente la sopravvivenza di soggetti o intere comunità e popolazioni. E davanti a tutto ciò, l’impreparazione è gravissima.
Muzzle velocity: la velocità di un proiettile che esce dalla bocca di un’arma da fuoco.
Steve Bannon, ideologo dell’ultradestra trumpiana, già nel 2019, usava questa espressione per riassumere la sua strategia di public relations. Quella che ha permesso alla sua fazione di manipolare larghe fasce dell’opinione pubblica capitalizzando le emergenze sociali e politiche degli ultimi anni e proporre un fascismo accessibile, adattabile, capace di liberarsi dal peso della memoria storica.
Bannon stesso ha illustrato questo funzionamento con brutale semplicità:
Il partito di opposizione in realtà sono i media. E i media sono stupidi e pigri, perché riescono a concentrarsi soltanto su una cosa alla volta. Tutto quello che dobbiamo fare, allora, è intasare tutto. Ogni giorno li colpiamo con tre argomenti. Loro si avventeranno sul primo, e a quel punto il nostro lavoro sarà già finito. Bang, bang, bang. Questa è gente che non sarà mai… non saranno mai capaci di riprendersi da tutto questo. Dobbiamo procedere alla velocità di un proiettile.
Di nuovo. C’è chi può descrivere in estremo dettaglio questi meccanismi, ad esempio, una trattazione recentissima si trova nell’ultimo numero di Complotti, la newsletter di Leonardo Bianchi.
Qui, come in ogni altro spazio per praticare alternative, ci serve capire come la consapevolezza di queste dinamiche possa orientare il lavoro comunitario. I social network sono stati l’habitat perfetto per diffondere i contenuti propagandistici, per sollecitare reazioni indotte e garantirsi un engagement continuo: i messaggi sono rapidi, volatili, facili da creare e difficili da verificare.
In generale, parliamo di contenuti di qualità molto bassa, facilmente riconoscibili, costruiti con linguaggio semplice e diretto. Puntano a chi è più esposto alla disinformazione: persone isolate, in difficoltà economica o sociale, in cerca di colpevoli tangibili per il proprio disagio. La risposta di una sinistra che non interroga lo status quo, fatica a contrastare questo modello, lasciando terreno libero all’odio. Il prezzo più grande lo pagano i gruppi usati come capro espiatorio, nonostante il fatto che anche i movimenti come Maga si ritroveranno presto a scoprire che il loro interesse non era al primo posto come credevano.
L'architettura dei social stimola risposte emotive, trionfano reazioni istintive piuttosto che quelle critiche, ma l’estrema destra non si regge solo su un’ideologia: si alimenta della disregolazione emotiva individuale creata da crisi economiche e sociali.
Nel lavoro di facilitazione di gruppi (con approccio sistemico, abolizionista e femminista), facciamo emergere la necessità di riscoprire la dimensione emotiva nelle relazioni sociali. Non è un lavoro fine a se stesso, ma parte di un percorso per comprendere in che modo la politica basata su presupposti appena descritti abbia di fatto impattato profondamente anche le aree e le persone che si dedicano alla giustizia sociale.
Riconoscerlo vuol dire rafforzare le comunità di lotta. Non si tratta di calare giudizi dall’alto di un piedistallo, ma di costruire criticità e consapevolezza orizzontalmente. Ad esempio, una riflessione sui call out è possibile, ma deve avvenire in uno spazio di cura, e dall’interno dei movimenti stessi. Capire cosa ci serve e cosa no di certe pratiche si radica nella ricerca della sostenibilità, del benessere collettivo, dell’efficacia politica.
Tornando al tema iniziale: per contrastare un podcast sul politicamente corretto, ne servirebbero altri dieci per smontarlo, alimentati dalla stessa rabbia, la stessa trazione che invece fa la fortuna mediatica di tutti gli elementi pseudotrasgressivi della manosfera. Servono strumenti accessibili e popolari (ad esempio questo post di Cronache Ribelli) per sottrarre energie alla retorica del wokismo, strumenti che spieghino i nostri approcci, che il linguaggio è importante ma non è tutto: ha una funzione politica, ma la politica non si esaurisce in esso.
Essere un punto di riferimento solido per chi subisce la disinformazione politica, per chi non ha il privilegio di una comunità resistente intorno, significa anche imparare a sopravvivere ai conflitti e alla violenza, e poter recuperare chi cade nelle trappole delle provocazioni mediatiche.
A volte il linguaggio ci serve soltanto per capire se siamo in stallo o se ci stiamo muovendo. In gruppo, propongo spesso un esercizio: esprimere in una parola le emozioni, le sensazioni predominanti all’idea di lavorare su temi complessi come i conflitti e la violenza. Le risposte più comuni sono:
Preoccupazione, tristezza, sfiducia, costernazione, delusione, colpa, paura.
Più raramente: responsabilità, scomodità, rabbia.
Solo a volte: speranza.
Dopo questa espressione collettiva, discutiamo del valore di queste parole/emozioni: le prime paralizzano, le seconde possono essere il punto di partenza. La terza è l’unico vero innesco capace di alimentare il cambiamento.
Il lavoro successivo, allora, consiste nel passare dal primo punto al terzo. Anche resistere alle immagini e alle parole del terrore trumpista oggi è parte della lotta. In questo scenario, diventa essenziale lo spazio dato a componenti portatrici di speranza attiva. Non quelle fugaci e precarie che garantiscono a pochi soggetti scelti una parvenza di inclusione in un sistema oppressivo. Quelle radicate nella pratica, che costituiscono materiale per nuove fondamenta.
Angela Davis, appena dopo la cerimonia di inaugurazione di Trump, ha affermato che non esistono momenti propizi per la lotta: “Abbiamo sempre affrontato delle ondate di conservatorismo. E anche se non possiamo creare le condizioni ideali per le lotte in cui ci impegniamo, possiamo portare la nostra determinazione. Possiamo portare la nostra visione di un futuro migliore.
Più di recente, adrienne maree brown ha detto:
Sì, la realtà è cupa e caotica in questo momento, ma non è una situazione permanente. Il futuro non è scritto.
E ancora:
Dobbiamo ricordarci di continuare a scrivere e vivere le nostre storie. Quelle in cui la giustizia, l'uguaglianza, il benessere materiale, la cura, la connessione, l'appartenenza, la libertà, la sicurezza, la dignità e la terra sono al centro.
Nelle nostre storie, il momento che stiamo vivendo può rivelarsi un fallimento se non impariamo nulla se non vendetta, piccolezza e la violenza. Oppure può essere una tragica battuta d'arresto che si trasforma in una moltitudine di opportunità di liberazione, per avanzare verso un modello economico adatto alla vita.
Chiudo con una vecchia immagine e una citazione, che non a caso rispunta, a intervalli regolari dagli archivi digitali, a riportare il senso della prospettiva:
Dopo la pioggia, i funghi appaiono sulla superficie della terra come dal nulla. Molti emergono da quello che è un vasto sistema sotterraneo, invisibile e spesso ignoto. Ciò che noi chiamiamo fungo è per i micologi il corpo fruttifero di un organismo ben più grande, ma meno visibile. Pensiamo alle sommosse e alle rivoluzioni come a eventi spontanei, ma a renderle possibili è spesso un lavoro a lungo termine di preparazione e organizzazione, un lavoro sotterraneo e meno evidente. - Rebecca Solnit da Hope in the Dark
Grazie <3