Nella piena del dolore di sorella, Elena Cecchettin espone la logica fallace del singolo violento, usa educazione e rivendicazione, sovverte il pietismo, e in un sol colpo evita l’autoassoluzione dello Stato, della politica e della cultura sull’altare del gradimento televisivo.
Non dovrebbe spettare a lei, ma Elena decide di farlo lo stesso.
«Bruciate tutto», dice. Ed è il momento in cui le tolgono il microfono.
Le sue parole sono pronte a farsi staffetta per tutte le compagne che stanno protestando e protesteranno il 25 novembre, senza apparire in tv. L’attenzione sarà sui calciatori con un segno rosso in volto e le foto di donne piene di lividi, la rappresentazione istituzionale di soggetti da proteggere o compatire. I cortei non faranno notizia, alle proteste e alla rabbia nessuno dedicherà titoli di prima pagina. Perché?
Il 17 novembre, un giorno prima del ritrovamento di Giulia Cecchettin, il presidente Giorgia Meloni appare in una foto istituzionale a braccetto di Santiago Abascal, leader di Vox, partito dell'ultradestra spagnola.
Abascal ha più volte ribadito: «la violenza non ha genere», oppure «il genere è un concetto ideologico che non condividiamo». Niente in contrario all’uso delle parole maltratador, violador o asesino, ha sempre detto, ma dobbiamo parlare di «violencia intrafamiliar». In fondo, rassicura lui: «Vox è l’unico partito che chiede l’indurimento di pene, compresa la prigione per assassini e stupratori». In cambio, si impegna a cancellare tutte le conquiste femministe: vi sbatto il mostro in carcere, e butto via la chiave, ma non azzardatevi a parlare di machismo e femminicidio. Perché devi farti vittima, usare le parole che ti dico e farti proteggere dall’uomo e dallo stato.
Solo il giorno dopo aver ribadito l’incondizionato sostegno ad Abascal, Giorgia Meloni e le sue idee violente - rese più presentabili solo da un attento studio comunicativo -, definiscono il femminicidio di Giulia Cecchettin "un dramma inconcepibile".
Poi l’annuncio di un piano contro la violenza, un «piano contro la barbarie».
Ammonimento, braccialetto elettronico, distanza minima di avvicinamento.
Poche altre occasioni ghiotte, da queste parti, solo molti ostacoli da scansare. Nel nord di Zaia, davanti a un figlio di buona famiglia, prossimo alla laurea, ci risparmiano la «bonifica» del territorio. Perché qui va tutto bene, c’è solo un ragazzo «a cui, non lo so, sarà scoppiato qualcosa in testa», dice il padre di lui.
I genitori e un paese intero, non hanno parole per la sua violenza e si rifiutano di capire di cosa è fatta. Lo Stato, intanto, non vuole nominarla.
D’altronde, solo poco tempo fa, Fratelli d’Italia e Lega hanno rifiutato anche la definizione della Convenzione di Instanbul: un atto discriminatorio e una violazione dei diritti umani.
Ma lui mostro non è, perché mostro è l’eccezione alla società, mostro è quello che esce dai canoni normali di quella che è la nostra società. Lui è un figlio sano della società patriarcale che è pregna della cultura dello stupro - Elena.
Il passaggio dall’idea del raptus di un mostro a quella della responsabilità collettiva è la più grande minaccia per una società patriarcale. Fare i nomi dei sistemi di oppressione, invece dei singoli violenti, fa saltare tutti i suoi piani di dominio e contenzione.
Stefano Valdegamberi, consigliere regionale veneto, inizia una litania di cui ha sbagliato solo i tempi: ancora troppo presto. E fa più o meno così: «il tentativo di quasi giustificare l'omicida dando la responsabilità alla 'società patriarcale'. Più che società patriarcale dovremmo parlare di società satanista, cara ragazza. Sembra una che recita una parte di un qualcosa predeterminato e precostituito».
Cara ragazza, aggiunge Valdigamberi, «è un messaggio ideologico. E poi quella felpa con certi simboli aiuta a capire molto…».
Useranno tutti i mezzi necessari: la confusione, l’invalidazione, l’appropriazione. Con i discorsi irrilevanti in tv, con il messaggio della polizia di Stato, con la foto pubblicata da Giorgia Meloni delle sue quattro generazioni di donne, per contrastare l’accusa di essere espressione di una società patriarcale.
Quando il sistema che copre e alimenta la violenza viene finalmente smascherato, si ostinerà a ristabilire l’ordine e a sintonizzarsi sui nostri simboli e sulle nostre parole, e, messo alle strette, sulle frequenze del dolore e dell’impotenza di chi lo subisce. Ma la loro non può essere la nostra rabbia, non può essere lo stesso dolore.
A Elena sarà concessa attenzione mentre il cordoglio è fresco, poi la capacità di resistere a questo attacco sarà proporzionale all’intensità del rumore prodotto intorno a lei. Il rumore che continua il suo lavoro, non quello che lo vanifica con l’ennesimo pacchetto di soluzioni inefficaci.
Dalle domande non fatte, alle risposte evitate, ai segnali precoci sottovalutati. Dalle battute ignorate, alle fantasie non indagate, all’incapacità di riconoscerle. Dai commenti sul corpo, sulle scelte, sulle ambizioni e sulle idee delle donne. Dal mito mortifero della competizione e della produttività, all'assenza cronica di spazi in cui fermarci a riflettere, guarire e bruciare tutto.
Non servirà dissolvere questo nell’idea di un maschile destinato alla violenza, tanto caro a chi pensa che nascere donna basti a non partecipare all’oppressione.
Serve parlare del tipo di soggetti che il patriarcato crea: uomini violenti e persone complici, comprese le donne che difendono il sistema che li beneficia, e infine, donne e persone che devono portare tutto in piazza, anche il proprio dolore, affinché la società smetta di dire che va tutto bene, «gli è solo scoppiato qualcosa in testa».