Negli ultimi anni, i call out (i richiami pubblici dopo comportamenti problematici o violenze) sono stati parte di diverse riflessioni più generali su antipunitivismo e giustizia trasformativa. Se in alcuni gruppi politici si sta discutendo delle potenzialità, dei rischi e delle derive, nei piani volatili e frammentati dei social network, sono discorsi impraticabili.
Fuori e dentro la rete, la legna da ardere è ancora molta. E non possiamo rinunciare a questo fuoco. Il bisogno di esprimere la rabbia, il rancore, il desiderio di vendetta, non si esaurirà presto in una società fondata sull’oppressione di genere, di classe, di razza, del capitale. Quanto è cruciale questo passaggio per non ricadere nei giudizi facili e perversi sui toni che squalificano le idee!
Come ci racconta una pensatrice che da tempo si esprime sul tema, adrienne maree brown1, i call out ci hanno permesso di esporre istituzioni, personaggi o realtà irraggiungibili con altri mezzi, quando lo squilibrio di potere era talmente grande da impedire l’accesso ad altre strade. Ho lavorato molto sulle pagine di amb e su tante altre per consolare la necessità di un pensiero che non finisca per omologare tutti i contesti.
In questi giorni di polemiche intorno alla fiera Più Libri Più Liberi, è stata citata spesso La trama alternativa, forse vale la pena dire perché. La storia racconta di un caro amico che viene accusato di violenza… ma le coincidenze finiscono qui. Da una parte c’è un uomo difeso da avvocati che si occupano di dimostrare un’assenza di colpe e dall’altra un lavoro comunitario, delle scelte e delle azioni che parlano della presa in carico personale e collettiva della violenza. La distanza tra persona che agisce la violenza e persone che ne subiscono l’impatto è più breve. (Anche se potremmo dire che l’impatto non è mai così circoscritto.)
Sempre in questi giorni, dentro il vortice sicuramente limitato a una bolla, sono apparse decine di richieste sotto post pubblici di figure più o meno prominenti della cultura, di quelle che toccano nel loro lavoro istanze di giustizia sociale. Alcune sono insulti, altre sono riflessioni, altre sono richieste di schierarsi, altre sono denuncia del silenzio. La massa di questi interventi online è differente da una comunità circoscritta per le implicazioni che contiene. Qui potrebbe essere l’architettura dei mezzi a rendere ambigua la stima della prossimità.
Parto da una critica frequente: spesso si pensa che il lavoro antipunitivo voglia dire spegnere la rabbia e il conflitto. E invece, il lavoro aspira a raggiungere i margini in cui quella rabbia e quel conflitto vengono vissuti in solitudine. Perciò dico spesso che vorrei superare la domanda: i call out sono giusti o sbagliati? Per ora vorrei sapere questo: discutere sui social è entusiasmante o fa mancare l’aria? E anche: discutere sui social sta minando, in qualche modo, le forme della collettività reale? Mi interessa parlare della sostenibilità emotiva e della progettualità a lungo termine.
Uno degli ostacoli più grandi quando si fa lavoro sul campo, è che il modo comune di intendere l’accountability subisce l’influenza dalla cultura delle celebrità, che ha preoccupazioni diverse rispetto alla reale presa in carico di un problema. Ogni volta che un personaggio pubblico viene accusato di qualcosa di grave, si tenta di minimizzare il danno, proteggere l’immagine e limitare il più possibile le conseguenze. A seconda dei casi e della gravità, tutto questo può coinvolgere professionisti, esperti di comunicazione e gestione di crisi, consulenti d’immagine, avvocati. Insomma, bisogna conservare i privilegi, è un gioco di facciata che mira a difendere il potere, non di certo alla sua messa in discussione, e in qualche modo penetra anche nella cultura popolare, ovviamente patriarcale.
Prendere posizione serve, l’impegno di una persona nota apre spazi di agibilità politica, ma io credo che se questo impegno non si attiva da sé, c’è un motivo che evidentemente tocca interessi personali, commerciali, di classe. Cosa può produrre, nel concreto, una presa di posizione dissonante dagli interessi di questo o quel personaggio? Molto spesso un’accountability illusoria, scuse insincere, passi indietro. E a volte, la presa di parola vuota nasconde la necessità di distanziarsi dalla possibilità di cadere nelle stesse accuse.
Sono anni che cerco di arrendermi all’evidenza: nemmeno le scuse scritte col linguaggio più “giusto” garantiscono che ci sia stato o ci sarà un lavoro di decostruzione. Lo dico senza esonerare me stessa: l’accountability è un processo lungo e complesso, che richiede molto più di una semplice dichiarazione pubblica o di un gesto simbolico. Richiede tempo, risorse, una comunità. Ma può produrre una cultura con effetti a lungo termine, che a sua volta producono una pressione che interroga la violenza e la difesa di chi la agisce. Soltanto per scrivere le pagine che ho già scritto su questi temi ho impiegato anni. E quel lavoro non è ancora finito.
Recentemente, mi hanno chiesto di lavorare a un pezzo sulle Nemesiache, storico collettivo femminista napoletano degli anni Settanta. La richiesta (e l’intuizione) della curatrice del progetto, Sonia d’Alto, è stata di accostare le pratiche delle Nemesiache a quelle della giustizia trasformativa. E' impossibile e ingiusto che io riesca a riassumere qui e ora la loro immensa produzione. Voglio citarle soltanto per dire che riflettere sul loro lavoro è stato un grande privilegio.
Il collettivo si è dedicato, tra mille altre cose, a ritornare al significato originario della parola nemesi e al ruolo dell’arte e della creatività femminista, centrale in ogni loro azione politica. Le Nemesiache tornano a una concezione di vendetta che non è quella comunemente intesa, che non aspira a dissolversi nella giustizia legale, ma che si manifesta in uno squilibrio di potere. Raggiungere la nemesi vorrà dire allora riconquistare l’equilibrio, tenendo a mente che l’oppressione delle donne è prima di tutto oppressione della loro creatività.
Di quali incredibili azioni saremmo capaci se potessimo spostare l’attenzione dalla punizione individuale alla creazione collettiva, se le strategie per superare tutta questa frustrazione (ir)risolta non si concentrassero sulle accountability impossibili? Il patriarcato ci priva già di tante cose. La lotta al patriarcato deve smettere di toglierci il respiro.
Recentemente è stato pubblicato da Meltemi un libro di amb che tocca approfonditamente il tema: Per una giustizia trasformativa. https://www.meltemieditore.it/catalogo/per-una-giustizia-trasformativa/
È sempre un privilegio leggerti, Giusi.